Termine di origine greca che in filosofia indica l’arte o la tecnica dell’interpretazione.
Nel medioevo, nella Riforma protestante e fino al Seicento l’(—) fu soprattutto «teologica», in quanto ebbe ad oggetto prevalentemente i testi delle Sacre Scritture.
Dal XVIII secolo in poi l’(—) passò dal ristretto campo dell’esegesi biblica ad ogni tipo di testi che presentassero difficoltà interpretative (per motivi storici, psicologici, linguistici ecc).
Nell’Ottocento il termine indicò la forma di comprensione della realtà storica e spirituale di un testo, considerato come un prodotto fornito di vita autonoma rispetto al suo autore. In particolare, secondo Schleiermacher (1768-1834) e tutta l’(—) romantica, poiché un testo vive oltre l’epoca del suo autore, è possibile all’interprete fornire un significato più preciso di quello che l’autore stesso fornì ai suoi contemporanei. Nella concezione del filosofo tedesco l’interprete doveva fare attenzione nella sua attività ermeneutica al linguaggio, ai collegamenti tra una singola opera e la produzione complessiva dell’autore, alle interazioni tra le diverse parti del testo scritto e all’ambiente storico dell’autore.
Con W. Dilthey (1833-1911) si ha l’esplicita identificazione dell’interpretazione con il sapere storico, con la conseguenza che l’(—) diviene la forma di conoscenza tipica di tutte le scienze storiche, pur mantenendo il suo necessario riferimento ai testi scritti.
Nel Novecento M. Heidegger (1889-1976) approfondì la concezione dell’(—) come tecnica che svela il significato dell’esistenza attraverso il linguaggio.
Gadamer (1900) elaborò il concetto di «circolo ermeneutico» che si determina a causa delle molteplici interpretazioni che dal testo l’interprete può ricavare, a seconda del rapporto che instaura con l’opera letteraria.